Domanda di Francesco:
Salve,
A maggio del 2020 sono guarito dal covid-19 e l’ASL competente mi ha rilasciato un certificato di avvenuta guarigione.
A settembre, al momento dell’assunzione da parte di una nuova azienda, dichiaro di aver avuto il Covid-19, presentando il certificato di guarigione. In breve tempo, l’azienda decide di effettuare test sierologici ai propri dipendenti: io ovviamente presentavo anticorpi IGM e IGG elevati a causa della recente infezione, che comunque avevo nuovamente fatto presente all’operatore sanitario durante il test sierologico.
Ottenuti gli esiti dei test sierologici ed esclusivamente sulla loro base, il laboratorio di analisi informa me e l’azienda che io ho un’infezione da Covid-19 in corso e che sono un soggetto infetto, nonostante i miei chiarimenti e il mio richiamo al certificato di avvenuta guarigione dell’ASL.
Il responsabile aziendale, intimorito da questa comunicazione, mi allontana dal posto di lavoro e mi chiede di lasciare le chiavi della mia stanza per consentire la sanificazione dei locali, anche in questa occasione senza prestare attenzione ai miei tentativi di chiarimento.
Offro la mia disponibilità ad effettuare un tampone, ma nel frattempo sono contattato da un collega, il quale aveva appreso la notizia della mia positività, e nel giro di poco tempo apprendo che tutti i colleghi di lavoro ne sono a conoscenza.
Nonostante i due tamponi effettuati nelle 48 ore successivi siano risultati negativi, e il medico aziendale mi abbia confermato di aver riferito che ero guarito, ma anche che l’azienda fosse comunque convinta del contrario, scelgo di dimettermi a causa del disagio provato.
Tengo a precisare che da quando ho comunicato l’esito negativo dei due tamponi, non ho ricevuto alcuna comunicazione o cenno da parte dell’azienda.
Ritenente ci siano degli estremi per parlare di violazione dei miei diritti?
Grazie.
Risposta di Giuseppe Miceli – Segretario Generale di Privacy Italia:
La problematica alla base del suo quesito è estremamente attuale e sicuramente delicata! Ed è per questo che ho voluto occuparmi personalmente della questione.
Da molto tempo sostengo la necessità di non consentire che, nemmeno in presenza di uno scenario emergenziale – persino di natura sanitaria – come quello che tutti noi stiamo vivendo, si possa consentire di trascurare e non rispettare adeguatamente i diritti e le libertà fondamentali degli individui, evitando, quindi, di dover subire ingiusti limiti e compressioni.
Dalla lettura del quesito emergono almeno due aspetti degni di attenzione:
- il primo attiene all’eventuale obbligo per il lavoratore di autodichiarare nei confronti del datore di lavoro una circostanza di contagio o di esposizione al rischio di contagio e di dover, persino, accettare di essere sottoposto a test sierologico;
- il secondo attiene alla comunicazione dell’esito degli accertamenti sanitari eseguiti sul lavoratore ed effettuata direttamente dal personale del laboratorio di analisi al datore di lavoro.
A questo secondo aspetto critico deve aggiungersi, pure, l’ulteriore divulgazione dell’informazione – peraltro, a suo dire, non veritiera – che ne è scaturita, a valle, al punto da essere stata svelata la sua identità anche ai suoi colleghi, i quali sono stati portati a conoscenza di un pericolo di contagio, peraltro – sempre a suo dire – rivelatosi infondato.
In premessa, deve rilevarsi che, se è vero, come è vero, che a carico del datore di lavoro gravi l’adempimento di obblighi sanciti anche in relazione al dovere di garantire condizioni idonee ad assicurare ai lavoratori adeguati livelli di protezione (indicati nel Protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del COVID-19 nei luoghi di lavoro del 24 aprile 2020), è altrettanto vero che da tale adempimento possano generarsi alcune problematiche connesse alla tutela della privacy dei dipendenti.
Ecco quindi che lo stesso presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, in più occasioni, ha ribadito che i diritti possono essere limitati soltanto nella misura strettamente indispensabile e che devono essere periodicamente valutati per verificare che le limitazioni imposte siano sempre necessarie e soprattutto proporzionali rispetto alla situazione emergenziale.
In relazione al primo aspetto critico che emerge dal quesito – quello che attiene all’autodichiarazione e alla possibilità di dover effettuare un test sierologico – si riporta quanto indicato dal Garante nelle FAQ Trattamento dei dati nel contesto lavorativo pubblico e privato nell’ambito dell’emergenza sanitaria, in particolare che: “in base alla disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro il dipendente ha uno specifico obbligo di segnalare al datore di lavoro qualsiasi situazione di pericolo per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro (art. 20 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81). Al riguardo la direttiva n.1/2020 del Ministro per la pubblica amministrazione ha specificato che in base a tale obbligo il dipendente pubblico e chi opera a vario titolo presso la P.A. deve segnalare all’amministrazione di provenire (o aver avuto contatti con chi proviene) da un’area a rischio. In tale quadro il datore di lavoro può invitare i propri dipendenti a fare, ove necessario, tali comunicazioni anche mediante canali dedicati.
Tra le misure di prevenzione e contenimento del contagio che i datori di lavoro devono adottare in base al quadro normativo vigente, vi è la preclusione dell’accesso alla sede di lavoro a chi, negli ultimi 14 giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19 o provenga da zone a rischio secondo le indicazioni dell’OMS. A tal fine, anche alla luce delle successive disposizioni emanate nell’ambito del contenimento del contagio (v. Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali), è possibile richiedere una dichiarazione che attesti tali circostanze anche a terzi (es. visitatori e utenti).
In ogni caso dovranno essere raccolti solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da Covid-19, e ci si dovrà astenere dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva, alle specifiche località visitate o altri dettagli relativi alla sfera privata”.
Pertanto, il datore di lavoro può richiedere ai lavoratori di effettuare test sierologici, ma a condizione che ciò sia disposto dal medico competente. “Solo il medico del lavoro infatti, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, può stabilire la necessità di particolari esami clinici e biologici. E sempre il medico competente può suggerire l’adozione di mezzi diagnostici, quando li ritenga utili al fine del contenimento della diffusione del virus, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie, anche riguardo alla loro affidabilità e appropriatezza” (Così il Garante privacy in: Covid-19, test sierologici sul posto di lavoro: i chiarimenti del Garante privacy. Il datore di lavoro non può effettuare direttamente esami diagnostici sui dipendenti).
In tali circostanze, quindi, il datore di lavoro potrà offrire ai propri dipendenti, anche facendosi carico dei costi, in tutto o in parte, l’effettuazione di test sierologici presso strutture sanitarie pubbliche e private.
A questo punto, passando a occuparci del secondo aspetto critico – quello della comunicazione dal laboratorio di analisi al datore di lavoro e, poi, della divulgazione dal datore di lavoro al resto dei lavoratori di una situazione di rischio causata dallo stato infettivo a lei attribuibile – giova evidenziare che, in nessun caso, il datore di lavoro potrà conoscere l’esito dell’esame.
Tanto più che “in capo al medico competente permane, anche nell’emergenza, il divieto di informare il datore di lavoro circa le specifiche patologie occorse ai lavoratori” (Così: FAQ -Trattamento dei dati nel contesto lavorativo pubblico e privato nell’ambito dell’emergenza sanitaria).
Il Garante Privacy ha precisato, infatti, che il datore di lavoro può trattare – soltanto – i dati relativi al giudizio di idoneità alla mansione specifica e alle eventuali prescrizioni o limitazioni che il medico competente può stabilire come condizioni di lavoro.
Spetta sempre al medico competente suggerire l’adozione di mezzi diagnostici, ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie, anche riguardo alla loro affidabilità e appropriatezza. (Così: nelle FAQ del Garante, Covid-19, test sierologici sul posto di lavoro: i chiarimenti del Garante privacy. Il datore di lavoro non può effettuare direttamente esami diagnostici sui dipendenti).
Quindi, risulta priva di fondamento giuridico la comunicazione che l’addetta del laboratorio di analisi avrebbe effettuato direttamente al suo datore di lavoro.
Stessi profili di liceità possono rilevarsi in ordine alla divulgazione nell’ambiente lavorativo della situazione di rischio di contagio a lei riconducibile. Sul punto, basti considerare che il datore di lavoro, nell’ambito dell’adozione delle misure di protezione e dei propri doveri in materia di sicurezza dei luoghi di lavoro, non può comunicare il nome del dipendente o dei dipendenti che hanno contratto il virus a meno che il diritto nazionale lo consenta.
Pertanto, in base al quadro normativo nazionale il datore di lavoro deve comunicare i nominativi del personale contagiato alle autorità sanitarie competenti e collaborare con esse per l’individuazione dei “contatti stretti” al fine di consentire la tempestiva attivazione delle misure di profilassi.
Soltanto le autorità sanitarie competenti devono, invece, informare i “contatti stretti” del contagiato, al fine di attivare le previste misure di profilassi.
Non è nemmeno previsto un obbligo di comunicazione del datore di lavoro in favore del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
La comunicazione di informazioni relative alla salute, sia all’esterno che all’interno della struttura organizzativa di appartenenza del dipendente o collaboratore, può avvenire esclusivamente qualora ciò sia previsto da disposizioni normative o disposto dalle autorità competenti in base a poteri normativamente attribuiti (es. esclusivamente per finalità di prevenzione dal contagio da Covid-19 e in caso di richiesta da parte dell’Autorità sanitaria per la ricostruzione della filiera degli eventuali “contatti stretti di un lavoratore risultato positivo).
In conclusione, possiamo solo limitarci a constatare che l’organizzazione interna delle aziende, anche e specialmente in questa prima fase di ripresa, richiede un livello di competenza e di attenzione che risulta, ancora e purtroppo, suscettibile di ampi margini di incremento.